Da “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo
“…. tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all’altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta.”
“Cesare Sofianopulo, pittore, poeta, traduttore, solerte indagatore di civiche vicende, ripropone in termini di una più precisa configurazione spirituale, quel prototipo di «homo tergestinus» in cui amano consapevolmente riconoscersi molti abitanti della città adriatica” scriveva Bianca Maria Favetta, alla quale spetta il primo importante lavoro monografico sull’artista, edito nel 1973 per volere dell’allora Cassa di Risparmio di Trieste. Non è un caso che all’epoca si avvallò la pubblicazione, quasi una sorta di dichiarazione d’intenti, visto che di lì a poco nelle collezioni entrò un autentico capolavoro come La Malata, opera indiscussa per qualità della prima fase dell’eccentrico Sofianopulo. Eppure, la Fondazione conserva non solo quel dipinto, di cui si dirà più avanti, ma altri lavori sfuggiti anche successivamente ad una catalogazione “a tappeto”. Cronologicamente, infatti, il primo lavoro rintracciabile è il ritratto di Mary, vale a dire la sorella del pittore, Maria Assunta, alla quale egli fu legatissimo, specie nel periodo della formazione come testimonia un carteggio fittissimo allorquando, spinto dal conterraneo Argio Orell, volle frequentare i corsi del leggendario Franz Von Stuck a Monaco. Nonostante una prima bocciatura al concorso d’ammissione, che lo portò a Parigi all’Academie Julian divenendo amico fraterno di Lipschitz e Modigliani (1911-12), Sofianopulo non si perse d’animo e si ripresentò al cospetto del grande maestro monacense sul finire del 1912, questa volta con tutt’altro esito. A questa oscillazione tra Monaco e Parigi appartiene il ritratto datato al 1911 che di parigino ha davvero ben poco; rispetto, infatti, alle figure primitive come Tetide che ricalcano le ricerche del “compagno di banco” Modigliani, per posa spregiudicatamente frontale e masse quasi scolpite dal pennello, il ritratto elegantemente di profilo della sorella pare tutto intriso di atmosfera secessionista monacense. La scelta dell’ovale, lo sfumato all’interno di un disegno preciso e sorvegliato ne fanno un figlio diretto delle prove stuckiane. Capolavoro, come dicevamo, è La Malata, opera che la Favetta vide ancora nella collezione dell’ingegner Arturo Garigioli e che entrò nelle collezione dell’allora Cassa di Risparmio nel 1976. Il dipinto, presentato alla prestigiosa rassegna di Monaco al Glaspalast nel 1913 venne premiato e da allora non conobbe mai un momento di appannamento critico nemmeno da parte di Sofianopulo stesso che, a più riprese, lo definì il suo lavoro migliore. Quando venne successivamente esposto alla Permanente di Trieste nel 1915 fu Silvio Benco a porre il sigillo definitivo, vedendone apparentamenti con la coeva pittura spagnola. Evidentemente il grande critico scorgeva certi passaggi tonali vicini a Lola la gitana di Ignacio Zuloaga y Zaballeta (1870-1945), acquistata all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911 dal curatorio del Museo Revoltella.
Tuttavia, ad essere oggi più equilibrati nel giudizio, non sorprende che un pittore della retroguardia come Gino Parin l’avesse trovato di suo gusto poiché più ottocentista nella resa generale. Come riportato sul retro della tela la protagonista del ritratto è Rita Maggi, una donna italiana che posando per Sofianopulo aveva coinvolto il pittore in un trasporto emotivo tanto che “era un’anima sentita dalla mia anima”. Ma, oltre alla partecipazione indotta a chi guarda il dipinto, rimane di grande fascino la stesura pittorica, con certi ricordi goyeschi stemperati da raffinatezze quasi manetiane, come la mano che emerge affusolata dalla luce in primo piano.
A tutt’altro clima e periodo appartengono le due tavole (pensate per un unico progetto) risalenti all’anno IX dell’epoca fascista, vale a dire realizzate nel 1931. Allineato ad un’idea di ritorno all’ordine, di pittura intesa come riappropriazione dei mezzi tradizionali e di recupero della nobile arte italiana del passato, realizza Spalato, di tono metafisico, non a caso su un supporto come la tavola di legno dove il didascalico ha la meglio sul pittorico: nel registro inferiore posiziona la sfinge dinanzi al leone separati dall’Orsa maggiore e vi pone le varie iscrizioni, in una sorta di contrapposizione (ma unite dal Leone di Venezia) tra Spalato e Sebenico; “Spalato/Palazzo di Diocleziano/Peristilio/Sfinge – Sebenico/Leone di Terraferma/Anno MDCXLVI”. Di ascendenza simbolista – pittura da sempre amata – è la tavola intitolata l’Altra Sponda, dove Sofianopulo sistema in un evidente dipinto-manifesto l’allegoria della Dalmazia separata dalle “sorelle” Trieste, Gorizia, Trento e Istria. Al di là del fine ultimo, le qualità del dipinto sono da evidenziare poiché Sofianopulo non recupera genericamente una pittura passatista, ma guarda ad esempi pre-raffaelliti con coscienza.