Caratterizzato da una produzione vastissima e da un’attività altrettanto febbrile in tutto ciò che fu il mondo dell’arte a Trieste soprattutto negli anni Cinquanta, Pietro Lucano ebbe i suoi primi rudimenti sotto la guida di Eugenio Scomparini. Frequentò in seguito il clima accademico veneziano, romano e monacense sino a quando a Venezia, il maestro Ettore Tito, lo indirizzò al paesaggio. E su questo genere Lucano ha dato, nel corso della sua lunga e operosa esistenza, prove maiuscole come possiamo constatare da Alba, suo capolavoro del 1910, presentato alla Biennale veneziana del 1912 e oggi conservato presso il Civico Museo Revoltella di Trieste. Non mancano nemmeno presso le collezioni d’arte della Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste opere ammalianti di Lucano che ci permettono di ripercorre alcune fasi salienti dell’attività dell’artista triestino.
Cominciando dal grande Tramonto del 1933, esposto alla Mostra Sindacale di Trieste dello stesso anno in un momento complicato per l’artista, quando sceglie di raffigurare paesaggi di rovine e distruzione, con titoli che volontariamente si rifanno ai cataclismi: una tela dalla pennellata divisionista, dove la figura della contadinotta con la cesta sopra il capo e funziona da linea di demarcazione tra la messa a fuoco della natura in primo piano e la fitta nebbia sullo sfondo. Il Plenilunio o Notturno a Oblisca (l’attuale Belsko slovena, presso Postumia) è un’opera tra le più affascinanti di Lucano che, presentata alla mostra personale del 1938, suscitò forte impressione per un gusto simbolista che guardava a certe soluzioni del coetaneo da poco scomparso, Glauco Cambon (1875-1930). La luce lunare conferisce un tono di mistero alla composizione, rivelando tutto ciò che possiamo vedere mentre i rettangoli gialli delle finestre illuminate suggeriscono la vita dentro le case sullo sfondo.
Di ben altra atmosfera è la descrizione del borgo friulano intitolato Angolo di Enemonzo; siamo nel 1947, dieci anni dopo Plenilunio. Sono zone, queste del Friuli carnico, dove Lucano amava soggiornare; la tavola è accesa da una brillante gamma cromatica, in contrasto con quell’atmosfera silenziosa, che è prerogativa per riconoscere la cifra stilistica del pittore. Così è pure il Tramonto a Osoppo, del 1952, ancora una volta intriso di una percezione tattile nebbiosa, con in primo piano il un rocchio di colonna adagiato sull’erba. La tavola di minori dimensioni raffigurante un Frammento carsico ha un tono più lirico, acceso da colpi di viola in un tramonto matrice veneta tardo-ottocentesca.
Agli anni Cinquanta appartengono le due tele che non rientrano in questa serie paesaggistica: il Ritratto di donna e Dieci Vasi. Il ritratto è un genere frequentato in tutte le fasi della produzione da Lucano e deve molto a ciò che l’artista vide nel fervido clima monacense. Solitamente posano per lui, in questi anni, la figlia Bianca e Bice Polli, dai profili marcati e tipicamente secessionisti, ispirano tanto da sortire un’idea del ritratto femminile allungato e con venature inquietanti. Analogamente dunque, dalle ricerche dei concittadini e integralisti monacensi come Cesare Sofianopulo e Argio Orell, Lucano realizza un ritratto da un lato elegante e al contempo conturbante, come ben evidenziano la mano che si isola nell’abito e lo sguardo diretto ma scostante, della modella verso l’osservatore.
Vasi è invece una composizione del 1955 e venne esposta pure alla mostra commemorativa del 1979. Il pittore, come ha giustamente osservato Patrizia Fasolato, recupera in questi anni una vena orientalista scegliendo vasi dalla foggia esotica. Le diverse volumetrie come la decorazione con le sagome dei cavalli utilizzata quale sfondo, creano una composizione suggestiva e pongono l’opera tra le migliori di Lucano di quel periodo.