Da “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo
“Corsi da un fioraio e scelsi un magnifico mazzo di fiori che indirizzai alla signora Malfenti accompagnato dal mio biglietto da visita sul quale non scrissi altro che la data. Non occorreva altro. Era una data che non avrei dimenticata più e non l’avrebbero dimenticata forse neppure Ada e sua madre: 5 Maggio, anniversario della morte di Napoleone.”
Pittore di primaria importanza nella Trieste non solo artistica ma anche letteraria (fu amico vero di James Joyce che conobbe nel 1914 ma pure di Stuparich, Giotti e altri) della prima metà del Novecento, Tullio Silvestri nacque in realtà a Venezia dove si formò, nonostante continui ripensamenti e abbandoni, presso le aule dell’Accademia di Belle Arti. Prima del 1906, ovvero da quando si stabilì a Trieste, girò tutta l’Europa alla ricerca di continue sollecitazioni, da Parigi a Berlino, da Monaco a Vienna sino a giungere in Polonia e Russia (che lasciarono in lui un segno evidente in termini stilistici) ma, come scrive Patrizia Fasolato, “si limita ad intuirle, a recepirle nei loro esiti visivi e formali”. Ed è proprio l’intuizione la forza ed il limite nell’opera di Silvestri. Per esempio, intuisce, divenendone maestro, le possibilità della tecnica del monotipo, intuisce la tecnica propugnata dalla scuola monacense come pure intuisce l’esser presente agli eventi che contano per non rimanere esclusi dai dibattiti intellettuali; è, infatti, presente nel 1909 alle prime serate futuriste. Certamente anche le fasi di isolamento sono pensate, intuite; come nel 1928, quando da uno studio in Via Margutta a Roma, sceglie di andarsene alla volta della piccola Zoppola, nei pressi di Pordenone ed allontanarsi pure da Trieste la quale, come scrive all’amico Lucano “Che io amo non v’è dubbio alcuno, che ne provo un’acuta nostalgia; ma altrettanto vero è che costà allineano, come altrove, del resto, le cariatidi provincialotte più assurde ed inconcludenti.” Di questo affascinante pittore e intellettuale, la Fondazione possiede una cinquantina di opere, tra oli e monotipi, che ne danno una visione il più possibile completa. Apre la serie, in termini cronologici, un’opera come i Calzolai del 1927; tela acquistata nientemeno che da Italo Svevo, dove i rimandi a certa pittura veneziana alla Milesi e quella monacense di Liebermann si incontrano senza grandi violenze e dove il lavoro degli umili calzolai è trattato con partecipazione in prima persona da Silvestri. Di poco successivo è Raccoglimento, immerso nelle crisi religiose vissute dal pittore, autentico punto d’arrivo nella ricerca dell’assorbimento della luce, con richiami, come scrive Fasolato, “di manciniana memoria” e dove dalla parete dello sfondo ai banchi in primo piano tutto il bianco luccica come funzionasse da specchio. La grande tela raffigurante una Scena d’interno sotto una lampada dimostra un accostamento a certe soluzioni di Renato Guttuso all’interno del movimento di Corrente ma soprattutto una decisa virata in senso disegnativo. Seguiamo il pittore sino agli anni ’40 con le Vecchiette dell’Istituto che attesta una rielaborazione del bagaglio veneziano di Silvestri; è la descrizione di personaggi spesso alienati, come lo erano le tele del veneziano Silvio Giulio Rotta, noto sul finire dell’Ottocento per dipinti finalizzati a descrivere uomini e donne in nosocomi o manicomi e a Telemaco Signorini per la soluzione di forte impatto diagonale con le figure violentemente portate in primo piano. Il fisarmonicista è l’opera che avvia, di fatto, una ricerca unicamente finalizzata a soggetti legati personalmente al pittore e che lo allontana dalle vicende dell’arte contemporanea, per lui ormai incomprensibile, e lo lega a Zoppola, paese caro e crudele al contempo, nel quale rimarrà dal 1947 al 1961. E’, in questa sua ultima fase, vicino agli esiti di un Luigi Nono o di un Italico Brass per sensibilità, dove alterna raffigurazioni meste e melanconiche a usi e costumi della zona con occhio divertito. Si vedano le due opere vicine, poiché realizzate nello stesso momento negli anni Cinquanta e con la stessa tecnica della tempera, e al contempo opposte come lo sono Esodo e il Ballo campestre. Quanto la prima composizione è analoga ai soggetti trattati da Silvestri durante la guerra – dove il tono tragico viene sottolineato da una pittura su due livelli, vale a dire un registro superiore accurato ed espressivo contrapposto ad un registro inferiore connotato da un pittura compendiaria e appena accennata – tanto il Ballo campestre è scanzonato e pure frenetico, dove la fluidità dell’evento va di pari passo con la tecnica adottata da Silvestri. Anche le altre preziose tempere sono confluite nella collezione della Fondazione; il Mercato dei fiori è completamente diverso dagli esiti più espressivi di Silvestri. Egli tenta un originale frammistione di tempera ed olio risultando più fresco e solare rispetto alle tempere coeve realizzate tra il 1950 ed il 1955, mentre nella Processione, il paesaggio sullo sfondo d’una scena alla Michetti con pennellate a tratti precise e a tratti sfocate che accompagnano il silenzioso corteo sul ponte, evoca quelli di Turner. Una Crocifissione moderna, alla quale una folla in delirio partecipa, è strettamente legata per sensibilità a James Ensor; Silvestri dunque è attento e pesca, per ogni tipo di nuovo lavoro pittorico, riferimenti ad una pittura a lui vicina per intendimenti. Lo stesso soggetto della crocifissione di Cristo trasposta in un crocifisso a cui aggrapparsi nella Preghiera diviene un modo per cospargere di luce, alla Gherardo delle Notti, i volti delle pie donne inginocchiate sulla diagonale violentissima qual’è il bancone. Un olio piuttosto rivelatore del progressivo ritorno alle origini veneziane è rappresentato dai Giocatori di carte; se lo accostiamo alla tela di Italico Brass della Galleria d’Arte Moderna di Udine e risalente al 1893, vale a dire i Chioggiotti alla briscola, pare un pendant. Più accesa è la cromia nella Rigattiera, e siamo nel 1955, una vecchia immersa fra oggetti realizzati da Silvestri con grande senso coloristico e volumetrico (si veda il liuto appeso e le brocche in primo piano) che va a dialogare con l’Interno di studio, questo meno squillante e fluido nella pennellata e dove troviamo un dipinto nel dipinto poiché egli riproduce sulla parete di fondo il quadro Interno di cortile (collezione privata) privo però, rispetto alla redazione finale, di animali e persone.
Di uno spaccato sociale piuttosto tipico dell’epoca è Pauperibus alendis tutandis, tradotto poi in monotipia, nient’altro che la mensa dei poveri, dominata dalla figura dell’improvvisato cuoco e dagli sguardi spauriti dei paesani. Autentico colpo d’ala è invece La villeggiatura dei poveri, dove Silvestri recupera la parte espressionista del suo modus operandi e, non lontano da certe soluzioni di Bolaffio, consegna una delle opere migliori del periodo. Di tenore più leggero e da osservatore sempre coinvolto sono le Allegre nozze friulane che, senza volerlo, lo ricollegano per il soggetto a quella pittura lombarda ottocentesca che ha in Angelo Inganni il suo maggior poeta con le Nozze in Brianza conservato al Museo Revoltella di Trieste.
Risentendo della sua condizione esistenziale fortemente ancorata alla fede religiosa, realizza la scena intitolata Rustico friulano, una sorta di rivisitazione del tema della nascita della Vergine in un’atmosfera paesana tutto immersa nel Friuli dell’epoca e dove il tema della maternità trova una duplice chiave di lettura fornita dall’icona della Vergine col bambino al di sopra del noto focolare (Fogolâr) e dalla donna allattante, che troviamo all’estrema destra del dipinto. Da ricondurre alla versione su tela, è il bel pastello Madre con bambino, dal tono morbido e dal disegno rarefatto; è interessante constatare da parte di Silvestri un autentico interesse al tema della maternità, lui che aveva perso la seconda moglie nel 1946 e, precedentemente, la prima consorte nel 1921. Sempre all’opera grafica appartengono i tre disegni provenienti certamente dai taccuini del prolifico artista; sono delineate figure che Silvestri vide fugacemente, in un istante. La prima è di un Cantore a San Marco (Zoni) a Venezia, città nella quale si recava per assistere a concerti in qualità di assiduo frequentatore della Fenice, poi troviamo la concentrata silhouette di un tale Dottor Manzutto, che probabilmente Silvestri conosceva privatamente tanto da riportarne professione e cognome, mentre la terza sagoma è quella di un anonimo personaggio ritratto in uno dei tanti viaggi in treno.
Il fondo delle monotipie rappresenta un capitolo a parte della corposa serie di opere presenti in Fondazione. Meritano pure una trattazione complessiva che ne chiarisca l’approccio a questa particolare tecnica da parte di Silvestri. E’ nel 1914 che espone per la prima volta dei monotipi al Salone Michelazzi di Trieste e sul Il Piccolo del 28 febbraio viene specificato che “Silvestri si presenta per la prima volta al pubblico in questa forma d’arte che coltiva con intenti del tutto personali da pochi mesi.” Scaturiscono dapprima le influenze di Ensor e di un timido divisionismo in salsa italiana alla Previati, ma ben presto riesce a trasferire nell’impervia tecnica suggestioni anche goyesche come è evidente nel Grande Consolatore da lui orgogliosamente intitolato. Durante la guerra lascia Trieste per Venezia e, una volta raggiunta Roma in qualità di radiotelegrafista operativo a Centocelle, grazie all’ospitalità della famiglia lì trasferita, si perfeziona ed espone i suoi monotipi nella capitale alla fine della Guerra, nel 1919. Tornato a Trieste, Silvestri ebbe fortuna proprio grazie ai monotipi. Eseguì il ritratto in questo modo dell’amico Joyce e, fatto decisivo, alle Biennali veneziane che videro Silvestri partecipare, solo le monotipie vennero ammesse a discapito degli olii. Di conseguenza, l’artista venne condannato ad essere monotipista, portandolo ad una rottura definitiva con l’organizzazione della Biennale nel 1935. I monotipi conservati nella collezione della Fondazione attraversano tutta la produzione del pittore che può essere valutata non tanto per i soggetti, ripetuti ossessivamente da Silvestri per una concezione da lui chiarita in diversi scritti ed articoli che vede il tema non tanto essenziale “in sé” quanto per le possibilità pittoriche che questo può offrire. Come scritto da Patrizia Fasolato, assistiamo a diverse fasi del Silvestri monotipista che passa dai primi toni grigiastri, ad una fase, quella degli anni Venti contraddistinta dal rosso sino a giungere negli anni Trenta inoltrati a squillanti inserimenti di giallo. Anche la scelta stilistica ha una sua ragione; egli rinuncia ad affiancarsi al gruppo sarfattiano di Novecento e continua una sua ricerca del segno quasi di natura caricaturale, accompagnato da una pennellata larga. Ciò che vedevamo nel dipinto, nella monotipia assume un rilievo plastico ancor più evidente: lo notiamo nel Ballo campestre, nel Pauperibus alendis tutandis, nella Madre con bambino o nei Giocatori di carte. La possibilità di vedere le tele accanto alle traduzioni in monotipia ci chiarifica perfettamente la ricerca coloristica e segnica di Tullio Silvestri.