Da “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo
“Era un uomo magro e nervoso, la faccia insignificante rilevata dalla calvizie che gli simulava una fronte altissima. Un’altra sua debolezza gli dava dell’importanza: quando levava gli occhiali (e lo faceva sempre quando voleva meditare) i suoi occhi accecati guardavano accanto o al disopra del suo interlocutore e avevano il curioso aspetto degli occhi privi di colore di un statua, minacciosi o, forse, ironici.”
Figura chiave per i cambiamenti apportati alla pittura giuliana alla fine del XIX secolo, Umberto Veruda forma il proprio gusto con il trasferimento cruciale del 1884 a Monaco di Baviera. Egli, incapace di seguire i corsi impartiti all’Accademia di Belle Arti, si muove tra le sale dell’Alte Pinakothek e indirizza le attenzioni verso la pittura seicentesca di Rubens, Van Dyck e Velazquez. Ne consegue una stesura ricca d’impasti e che, una volta entrata in contatto con il mondo veneziano, dopo un breve soggiorno parigino del 1888 e un viaggio a Roma l’anno seguente con la borsa De Rittmeyer, diviene complessa e capace di sortire risultati del tutto diversi. I naufraghi, tela del 1894, possiede tutte queste caratteristiche. Un formato da pittura di storia per raccontare un dramma – una ricerca non dissimile dai colleghi veneziani in quel momento -, una vena di realismo nordico, specie nella figura morente sulla sinistra del dipinto, ne fanno un’opera recensita con entusiasmo ne Il Piccolo della Sera sebbene la risonanza nazionale la ottenga all’Esposizione di Belle Arti a Roma nel 1895. Veruda aveva già esposto a Roma un suo capolavoro, vale a dire il Sansone alla macina (Trieste, collezione Lloyd Adriatico) nel 1891 sperando di proseguire il suo soggiorno formativo; qui, con I naufraghi, ci ritornava da artista più maturo e rinnovato. Il nudo femminile, tralasciando un momento i ritratti, arriva cronologicamente in un momento successivo (già ai primi del Novecento) ma, oltre a metterlo in relazione con altre prove, come il Nudo di schiena appartenuto a Italo Svevo e oggi fiore all’occhiello del Museo Revoltella, raccoglie in sé gli elementi della poetica di Veruda più importanti per l’ambiente triestino, all’epoca retrogrado e provinciale: “colore ardente, intriso di luce e la piena atmosfera ricca di chiarità solare”, per dirla con Molesi. Il ritratto virile, pure del 1894, oggi nella sede del Lloyd, di proprietà dell’allora Cassa di Risparmio di Trieste, mette in evidenza l’idea moderna del ritrarre per Veruda, sulla scia degli esempi tedeschi di Lenbach, dove gli occhi cerulei del personaggio emergono nella loro unicità, da uno sfondo e un abbigliamento il più possibile monocromi permettendo di concentrare lo sguardo sul volto dell’effigiato. Ai frequenti soggiorni lagunari in casa dei Veneziani, appartiene invece la piccola tela dell’estrema ricerca di Veruda, un autentico gioiello: il ritratto del pittore spagnolo Rafael Senet (1856-1926). Un uomo dagli occhiali scomposti, immerso in un turbinio di pennellate sciolte alternate a picchiettamenti e taches che aprono ad una modernità incompiuta, bloccata dalla prematura morte del pittore, avvenuta a soli trentasei anni d’età.